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ARTE: Nessuna solitudine ci renderà "numeri primi"

E’ stato un caso voluto e a tratti forzato che sotto il mio albero di Natale trovassi “La solitudine dei numeri primi”: un regalo del mio migliore amico e anche di un‘altra persona che da poco è entrata nella mia vita, questo sicuramente perché in un modo o nell’altro avevo fatto loro notare che avrei voluto leggere questo testo in mezzo alla miriade di romanzi che si accalcano sul mio comodino ogni settimana.

Questo perché sono anch’io attratta dai fenomeni di massa come lo stesso “Il codice Da Vinci”, non tanto perché credo nella loro splendida unicità dalla quale mi lascio coinvolgere in maniera incondizionata o perché voglio erigermi a giudice di qualcosa di cui tutti parlano, nei bar davanti a un caffé, negli uffici durante la pausa per una sigaretta, o che tutti leggono, in piedi nella metropolitana affollata rischiando di cadere alla prima frenata del macchinista. Se ho letto “La solitudine dei numeri primi” è perché anche io volevo in certo senso farmi lasciarmi andare a questo romanzo, perché credo sempre nelle sensazioni della gente e perché nel bene o nel male voglio capire se è stato davvero un’intuizione epocale.

Così mi sono lasciata scivolare le pagine tra le mani, non con fare voraginoso, ma con un certa attenzione, tale da potermi permettere di dar forma a un sano scetticismo o una sensazionale scoperta!

Così le storie (e non la storia) di Mattia e Alice hanno fatto capolino nei miei pigri giorni di vacanze. La forma del romanzo abbastanza lineare e fluida ha, a mio avviso, in alcuni punti delle cadute grammaticali che non credo si riconducano tanto allo scrittore stesso, ma al “disuso” che noi tutti ormai facciamo della lingua italiana. Ma non è questo il punto su cui a mio avviso è necessario soffermarsi.

La teoria di questo giovane uomo, che è poi elaborata sullo studio dei numeri che i padri della matematica hanno fatto in tempi antichi, mi ha lasciato in bocca l’amaro della presunzione misto a un triste consapevolezza che non potrei mai accettare.

E’ affascinate, sicuramente la similitudine della vita dei due protagonisti al ruolo scientifico dei numeri primi: divisibili solo per 1 e per se stessi, che a volte si presentano in coppia, così vicini da non toccarsi mai perché un numero pari li dividerà sempre e più si va avanti e meno se ne trovano sino all’infinito. Ma la storia o meglio i numeri mi insegnano che sino all’infinito ce ne sono moltissimi che mai si toccheranno, come i giovani protagonisti del romanzo. Pertanto mi sono allo stesso modo risposta che la differenza è che questi numeri da me considerati (ad esempio 12 e 14) sono però divisibili per altri (il 12 è divisibile per 1, per se stesso, per 2, per 3, per 4 e per 6) e quindi hanno ulteriori probabilità di venire a contatto non solo con l’unicità della vita (il numero 1) e con la solitudine di se stessi.

E su questo cade tutto perché è mai possibile che tali esseri possano vivere solo della solitudine del dolore? Non hanno speranze? La drammaticità delle loro vite sarà destinata a cadere sempre nell’oblio del non risolto…Mattia e Alice si avvicinano, si sfiorano, ma non si toccheranno per la vita, ma ancor peggio non permetteranno a nessun altro che ciò possa accadere! E quale grande speranza artistica infonde lo scrittore? Se nasci cerchio non puoi morire quadrato? Questo noi lo sapevamo, credo, ma abbiamo bisogno ancor di più, noi figli di questo tempo, di credere che uno sciagurato destino infantile, un errore giovanile, un dolore che mai finirà possano un giorno tramutarsi in qualcos’altro che non sia solo sofferenza e infinita solitudine. Non bastava che per un “non detto” Mattia partisse per la sua ricerca all’estero e Alice sposasse un uomo che non amava, ha infierito sul concetto senza lasciare spazio alla speranza a un dolce barlume di buona vita.

Ha fatto in modo che i due si rincontrassero e che la giovane donna claudicante non dicesse mai al suo amore di sempre il motivo della sua lettera (il presunto incontro tra la stessa Alice e la sorella gemella e autistica di Mattia che in età puerile aveva abbandonato in un parco non trovandola più), ha permesso che lei indifferente e con crudeltà si lasciasse alla solitudine dell’anoressia, all’annullazione del suo essere donna, rifiutando di avere un figlio, alla fine del suo matrimonio. E allora ho trovato l’imprecisione della teoria che già tanto mi stonava perché imparagonabile all’infinità della vita, alla forza dell’uomo: Alice non è un numero primo, Alice è lo 0 (zero) perché tutto quel che tocca annulla; tutti coloro che incroceranno i suoi passi saranno destinati all’azzeramento: il marito che credeva in un grande amore, Mattia che sperava nella “resurrezione”, Michela che incoscientemente veniva sfiorata dai suoi occhi increduli, oramai adulta, il suo rapporto con il padre mai perdonato.

E così vivrà la “secchezza” del suo ventre, il riluttante rapporto con il cibo e il voraginoso confronto con l’altro, seduta sulle sponde di un fiume cittadino!

E dove la crescita? Dov’è la speranza? Dov’è la vita, l’amore?

Si può essere così ciechi?

Non posso crederci e mai ci crederò che l’esistenza umana si può associare al destino di un numero, a una brillante teoria perché noi siamo musica, corde di violino veloci e leggere al tatto, a volte imperfette, a volte fortemente allineate. Tutte le corde prima o poi si lasceranno suonare dalle mani del destino e ogni melodia avrà il suono dell’universo.

Mariangela Scaramella

Commenti

Cecilia ha detto…
Ho letto attentamente il post di Mariangela. E mi è piaciuta molto la sua metafora,alla fine dell'articolo, riguardo al fatto che noi siamo musica. "Corde di violino, a volte imperfette...a volte fortemente allineate"... Mi ha interessato molto leggere questo articolo. Io non ho letto il libro "La solitudine dei numeri primi", a causa delle mie forti resistenze in merito. Persone a me molto vicine l'hanno letto, e i racconti e i commenti che ne sentivo fare mi colpivano molto. E in qualche modo, nei loro commenti, ci trovo parte delle osservazioni che ho letto nell'articolo di Mariangela. Il fatto di chiudersi alla speranza, alla risorsa personale, al voler in qualche modo cambiare, anche con fatica, per uscire da una situazione difficile. Certo, uscire da uno schema, da un modo di pensare, da un vissuto, costa fatica, costa molta energia. Ma dentro di noi, possiamo trovarla. Certo, bisogna volerlo. Sapere che questo libro ha fatto un grande successo mi fa chiedere che cosa pensi la maggior parte dei lettori. Cosa ci vedono di positivo? Di creativo? Il fatto che questo libro possa rappresentare una realtà diffusa, un po' mi spaventa, perchè vorrebbe dire che oggi, noi giovani, ci identifichiam in un sistema che si distrugge, privo di qualsiasi via d'uscita creativa.
Come fare, allora, per riuscire a far suonare quella musica dell'universo, che contraddistingue ognuno di noi come essere unico ed irripetibile?
Cecilia Mariotto

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